NaturAutentica offre uno sportello di analisi biografica a orientamento filosofico (ABOF) a chi soffre di dolore cronico. Il primo consulto è gratuito e le tariffe dei colloqui successivi sono commisurate alle possibilità economiche di chi si rivolge allo sportello. I colloqui si possono svolgere sia in presenza, sia on line che in modalità alternata.

Per informazioni e richieste di un primo colloquio scrivere una mail a: info.sportellokairos@gmail.com

Cronicità

C’è qualcosa di inevitabile nella cronicità, ce lo dice l’origine greca del termine: khronikós e khrónos.            Khrónos è la divinità che divora i suoi figli: gli anni, i mesi, i giorni, divenendo potenza ineluttabile e inesorabile che squarcia e sbrana lo scorrere della vita.
Chi soffre di dolori cronici spesso patisce proprio la potenza del dio Khrónos il quale, come il dolore, sgretola lo scorrere e il  senso della vita. Cosa è il “cronicario” se non il luogo di sofferenze ineluttabili e inesorabili, il luogo del Dio Khrónos? Il “cronicario” potrebbe divenire metafora della vita, la quale nel suo dispiegamento temporale accoglie in sé, cronicamente, il dolore; anzi, essa è (anche) cronicamente dolore.
Se il senso specifico del dolore cronico, corporeo o psichico, è quella condizione in cui la guarigione non sembra potersi dare, lo Sportello “Kαιρός” vuole offrire un altro modo di pensare, vivere, dire il tempo: il tempo è momento opportuno, giusto, è momento supremo e diventa così tempo della cura, dell’ascolto e del dialogo (diviene tempo della funzione materna: dell’holding, dell’abbraccio fisico e affettivo) (D. Winnicott).
Se, infatti, appare assodato che il corpo sofferente, nel suo aspetto materiale, ha diritto a ricevere le cure mediche più efficaci per rendere il dolore sopportabile, meno scontato sembra essere il diritto della psiche a ricevere cura. Eppure i due aspetti non sono disgiunti: ogni dolore fisico è sempre accompagnato da un racconto, da una rappresentazione mediata dal significato, individuale e collettivo, che gli viene attribuito, così come ogni dolore psichico è anche veicolato da manifestazioni somatiche.
Se il corpo, nella sofferenza, parla, anche la persona che è quel corpo, nella sofferenza, parla. È possibile trovare un racconto capace di tenere insieme le due narrazioni?
Attraverso l’ascolto rispettoso delle diverse espressioni del dolore, si può tessere una trama che, non eludendo la realtà della sofferenza, consenta di attenuare se non estinguere l’inimicizia che il dolore provoca tanto con sé
stessi che con il mondo.
Partendo dall’idea che la cura abbia la propria scena primaria nella carezza e, pertanto, nella reciprocità fra cura del corpo e della psiche, lo Sportello offre dialogo e ascolto, ossia quella “stanza tutta per sé” (V. Woolf, Una
stanza tutta per sé), in cui il dolore può trovare le parole per dirsi e trasformarsi.

Scena primaria

Allorché una bimba vede soffrire il fratellino essa trova, senza quasi saperlo,
una via per consolarlo: con affetto cerca la sua mano e amorevolmente lo
tocca dove gli fa male.
Così la piccola samaritana diventa il suo primo medico.
Una specie di prescienza dell’efficacia originaria dell’azione domina in lei a sua
insaputa; essa guida il suo impulso verso la mano e induce la propria al
contatto immediato. Infatti ciò di cui il fratello farà esperienza è che la mano lo
tocca facendogli bene. Fra lui e il suo dolore subentra la sensazione del venir
toccato dalla mano della sorella, in un modo che la sofferenza si ritrae dinanzi
a questa nuova sensazione. E così sorge anche il primo concetto dell’operare
medico, la prima tecnica della terapia (Viktor von Weizsäcker, Il dolore, in
Filosofia della medicina).
Il primo rapporto terapeutico è toccare il dolore con levità, accarezzarlo; il
contatto corporeo, affettivo, spirituale si frappone tra chi soffre e il suo dolore,
permettendogli di ampliare lo sguardo. È, dunque, proprio questo il primo
gesto terapeutico da offrire: sciogliere con la carezza, con la sensazione
profusa al solo tocco, l’unità apparentemente indissolubile fra sé e il proprio
dolore. 

Dialogo con il dolore

«Se la nostra vita deve scorrere insieme, caro dolore, ci conviene diventare
amici. Buoni amici.
Innanzitutto voglio conoscerti, in ogni tua parte, in ogni tua espressione.
Imparare con te l’apice e il fondo, l’alto e il basso, cosa ti placa e cosa ti
scatena, quanto duri, come ti comporti. Quanto mi rendi sgradevole e quanto
mi induci a migliorare…
Da quando ti ho incontrato il mio carattere, difatti, s’è indurito, ma anche
addolcito. Mi ritrovo arroccata a difesa contro ogni stimolo scatenante, ma
anche dolce e compassionevole, empatica verso ogni persona che ti attraversa.
Il secondo passo è lasciarti libero, lasciarti vivere, lasciarti corda. Se ci sei ti
ascolto, se ti allontani non ti penso; se vuoi venirmi a trovare ti offro un tè, ma
se vuoi stare per conto tuo non ti inseguo.
Il terzo passo è non essere gelosa della nostra relazione: posso condividerti
con gli altri, parlare di te e di noi con persone che possono ascoltarmi, ricevere
consigli sul nostro rapporto, darne ad altri che hanno amicizie molto simili,
farmi dare una mano a servire il nostro tè quando le mie mani tremano e fanno
cadere a terra le tazzine.
Il quarto passo è guardarmi attorno, allungare lo sguardo, rendermi conto che
siamo in molti a girovagare per questa vita con un amico simile. Forse, se lo

sguardo diventa penetrante abbastanza, posso cogliere vicino a ognuno di noi
il suo nemico-amico dolore».

Una stanza tutta per sé

Il titolo del libro autobiografico "Le mots pur le dire" (Le parole per dirlo) di Marie Cardinal gioca sulla sonorità di mots, ‘parole’ e maux, ‘mali’, sottolineando come il linguaggio veicoli e al tempo stesso si confonda con i mali dell’anima, portandoli nelle parole; il libro racconta lo stretto nesso tra corpo, mente, spirito e descrive la stanza d’analisi come lo spazio della cura autentica.
Quale linguaggio è, tuttavia, terapeutico?
Il linguaggio medico usa spesso la metafora della guerra: si combatte, si lotta contro la malattia, contro il dolore. Il linguaggio si fa difensivo e ci tiene lontano dagli altri. Il paziente si riduce a un corpo/campo di battaglia con il rischio di perdere la sua identità.
Per lo Sportello “Kαιρός”, il linguaggio, invece, deve diventare carezza, balsamo per le ferite dell’anima e del corpo. Le parole-carezze si prendono cura della “pelle” della persona dolorante nella sua integrità corpo-mente-spirito all’interno di uno spazio fisico – la stanza d’analisi – che è anche uno spazio psichico, “una stanza tutta per sé” dove trasformarsi, deporre le armi, raccontare il dolore in libertà, senza paure. Una stanza siffatta permette di ritrovarsi, ricostruirsi, “ripararsi” (M. De Kerangal, Riparare i viventi). La “stanza tutta per sé” non è solo un luogo, è anche un tempo: l’esperienza dolorosa trova la sua collocazione nel vissuto della persona sofferente, nella sua storia, nella sua trama sociale e culturale. Attraverso parole, immagini, disegni il dolore può essere riconosciuto, compreso, può prendere forma ed essere trasformato. Chi soffre può raccontarsi senza il timore di non essere creduto e può trovare le risorse interiori per ri-vivere, rinascere. Da paziente, passivo, ritrova la sua capacità di agire per sé, nel mondo, di dare senso al proprio dolore, alla propria vita.